Quando manca un equilibrio tra domanda e offerta, sono i prezzi a subire le maggiori conseguenze. I recenti e significativi rialzi dei tassi di inflazione in effetti sono stati causati da importanti shock di natura fiscale, monetaria o pandemica.
Il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 è stata la goccia finale che ha provocato uno squilibrio nei meccanismi di offerta di moneta delle grandi banche centrali. Successivamente, con lo scoppio della pandemia di Covid-19, le autorità hanno posto in atto tutte le misure monetarie e fiscali necessarie a contrastare lo shock a livello di domanda. Allo stesso tempo, le strozzature lungo le filiere hanno colpito il lato dell’offerta. Il conflitto in Ucraina ha poi provocato un incremento dei prezzi dell’energia e quindi un nuovo shock dell’offerta, affrontato attraverso contromisure fiscali quali l’Inflation Reduction Act dell’amministrazione Usa. Tale provvedimento, che ha come obiettivo la lotta all’inflazione, ha effetti tanto sulla domanda quanto sull’offerta, in quanto supporta anche l’aumento della capacità produttiva.
Alla fine, è tutta una questione di ribilanciamento, vale a dire di ripristino dell’equilibrio tra domanda e offerta. Le banche centrali di tutto il mondo si muovono da tempo in questa direzione, con la banca centrale Usa Federal Reserve (Fed) e la Banca Centrale Europea (Bce) in prima linea. La Fed in particolare sembra pronta a mettere in conto una recessione di “assestamento”.
Al centro dell’attenzione rimane sempre il futuro andamento del ciclo economico. Stando agli indici globali dei responsabili degli acquisti (Pmi), gli indicatori della crescita sembrano aver già toccato il fondo, ma l’impatto dei rialzi dei tassi già effettuati dovrebbe farsi sentire con sempre maggiore intensità. Anche le condizioni di finanziamento divengono più restrittive, situazione che non solo crea difficoltà sui mercati immobiliari, ma causa problemi anche alle banche statunitensi, come dimostrano i recenti avvenimenti che hanno interessato alcune banche regionali USA soggette a normative meno stringenti.
In base al contesto attuale si privilegia la seguente allocazione tattica sui mercati azionari e obbligazionari:
In ambito azionario la ripresa degli ultimi mesi è stata trainata dai titoli tecnologici. Negli Stati Uniti il Nasdaq ha battuto nettamente il più ampio S&P 500, grazie soprattutto alla performance dei titoli di noti provider di piattaforme. Si è quindi diffusa una sorta di “AI fantasy”, vale a dire la speranza che i progressi nel campo dell’intelligenza artificiale (AI) possano favorire determinati titoli.
Vi sono tuttavia diversi dubbi sulla sostenibilità di tale trend rialzista. La “AI fantasy” potrebbe anche nascondere i dubbi degli investitori in merito ai recenti rialzi dei mercati azionari. Quello che manca è l’ampiezza di mercato: nelle ultime settimane il numero dei titoli che hanno registrato un incremento delle quotazioni è costantemente diminuito rispetto al numero dei titoli che hanno subito una flessione.
Gli investitori sembrano manifestare un certo scetticismo verso l’andamento dei mercati. Il sentiment degli investitori verso il futuro, misurato dall’indice Sentix, evidenzia un continuo deterioramento. Secondo gli ultimi sondaggi dell’American Association of Individual Investors, la percentuale di investitori privati ottimisti (“bullish”) resta prossima ai minimi ventennali.
Quindi ci si chiede: è possibile che un sentiment già così depresso peggiori ulteriormente? O in altre parole: chi ancora potrebbe voler vendere ed esercitare pressioni sulle quotazioni se sono già tutti pessimisti (“bearish”)? In ogni caso, queste domande non trovano riscontro nei fatti, considerando il recente aumento dei corsi azionari.
A fronte del nuovo rialzo delle valutazioni, agli investitori tattici si suggerisce maggiore prudenza, mentre agli investitori strategici, orientati al medio-lungo periodo, si raccomanda di prestare più attenzione al mantenimento del potere di acquisto dei propri investimenti, visto che i ritorni complessivi in termini reali sono negativi.
L’interruzione (temporanea?) del ciclo di inasprimento monetario della Fed USA dovrebbe in qualche misura favorire l’euro.