di Diana Daneluz
Quale responsabilità dell’Architettura nelle dinamiche di un quartiere cd. disagiato? Partiva da qui il lavoro lungo anni di docenti e studenti della Sapienza, in parte presentato al Rotary Club di Roma nell’ambito della diffusione di proposte per i quartieri disagiati. A raccontarlo il Ruggero Lenci ( titolare della cattedra di Composizione Architettonica III dell’Architettura con Laboratorio Progettuale presso Sapienza Università di Roma, Facoltà Ingegneria Civile e Industriale, Corso di Laurea in Ingegneria Edile Architettura) e Alessandro Scaletti, cultore della materia, suo collaboratore e presidente del Club, che ha riproposto un progetto di riqualificazione del quartiere basato sul concetto urbanistico di “Coefficiente di affollamento”. Lo scopo: mettere a disposizioni di Istituzioni capitoline, fondazioni ed enti interessati un patrimonio di progettualità tecniche pronte e potenzialmente realizzabili. Vediamo quali nell’Intervista all’Architetto Alessandro Scaletti.
Un’architettura “tattica” non basta?
Tra gli interventi utili ai cittadini di quartieri disagiati ci sono quelli di natura architettonica-urbanistica. Tor Bella Monaca a Roma, 0,77 kmq, potrebbe ospitare circa 28mila persone. Il numero esatto degli abitanti non è noto, ma inferiore a quello previsto dal piano di zona. E proprio nell’alternanza tra i popolosi spazi pieni delle case popolari e gli spazi vuoti incontrollati potrebbero annidarsi i germi di alcuni fattori negativi da record per il quartiere, come l’alto tasso di criminalità. 5.567 appartamenti su 6.753, l’82%, sono case popolari e il quartiere è segnato dalla crisi economica: il 41% delle famiglie vive in povertà assoluta, il 22% ha un reddito pari a 0 o vive di sussidi. Strategie di architettura tattica, dal basso, per rendere spazi pubblici e quartieri più vivibili, in teoria creano miglioramenti in tempi brevi con investimenti ridotti, ma non sono facili da attuare. Progetti di professionisti attenti all’etica dell’abitare, che tiene conto del fatto che l’uomo non ha bisogno di una tana, ma di una casa, dove «abitare», costruire, conoscere e esercitare i suoi «abiti», potrebbero fare la differenza. Un’architettura sociale che riconnetta i tempi interni e circolari della vita degli individui allo spazio urbano, alle piazze, ai parchi e alla strada e piani urbanistici che si prendano contestualmente cura di luoghi e relazioni. E i progetti presentati vanno senz’altro in questa direzione.
Dalla didattica a progetti realizzabili?
La collaborazione al Corso di Composizione III del Prof. Lenci è stata l’occasione per riordinare concetti stratificati nel tempo nel mio modo di immaginare un tessuto urbano. Far lavorare gli studenti al progetto di riqualificazione di un quartiere come Laurentino 38 è stato l’inizio della ricerca sull’irrisolto dibattito intorno alla “città a misura d’uomo”. Il quartiere è frutto del tentativo di uno dei più qualificati architetti contemporanei, Pietro Barucci, di traslare i contenuti del Piano Pampus di Bakema e Van Den Broek ad Amsterdam e della New Town di Cumbernauld in Scozia per creare un moderno aggregato urbano che, replicandosi in modo lineare, arrivasse alla composizione di un anello di dimensioni tali da costituire una “città satellite”, autosufficiente rispetto a Roma.
Ma qualcosa non ha funzionato….
No. Il degrado del quartiere si deve alle scelte del Comune sull’assegnazione delle case popolari e alla decisione di non realizzare i numerosi servizi previsti dal piano, stazione della metropolitana, cinema, teatro, centro sociale, biblioteca. Ma i soli edifici a ponte strutturati come sequenza di autonomie puntuali non sono risultati sufficienti a formare il tessuto urbano di una “città satellite”. L’impostazione del progetto maturato all’interno del Corso, invece, propone la suddivisione del quartiere di quasi 32.000 abitanti in 6 macroinsule, aggregate intorno al nucleo centrale verde dell’attuale valletta, attribuendole la capacità di metterle in relazione tra loro. Un’impostazione che recepisce le impressioni da me manifestate e di ciò ringrazio il Prof. Lenci. Gli studenti hanno fornito risposte originali per trasformare il quartiere in un luogo adatto alla residenza dove ciascuno di noi, indipendentemente dalle capacità economiche, desidererebbe vivere. Il comfort è subordinato al concetto di sicurezza, a sua volta è legato allo stato di affollamento, inteso come quantità di persone che frequentano il quartiere non soltanto attraversandolo in automobile, ma soprattutto avendo motivo di camminare in quei luoghi. Un obiettivo raggiungibile solo attraverso la creazione di funzioni caratterizzanti il quartiere stesso, che rappresentino un polo di attrazione – un magnete – per flussi provenienti da ambiti esterni.
Dal Laurentino 38 a Tor Bella Monaca?
Ho proseguito la sperimentazione su Tor Bella Monaca con un progetto che prende atto di quello che sarà lo scenario finale del piano in adozione, ricerca un dialogo tra i diversi sistemi urbani e la riqualificazione degli edifici. L’idea progettuale, intervenendo sull’arteria autostradale di Via di Tor Bella Monaca che spezza in due il quartiere, individua proprio in questo elemento di frattura il suo baricentro. L’arteria, interrata, lascerà l’attuale livello a funzioni per il terziario e direzionali in grado di rappresentare un magnete, un luogo di attrazione. Due torri, una ad uso uffici e l’altra residenziale, permetteranno di identificare il quartiere da importanti distanze. Un punto di forza, il regime di proprietà dei suoli interessati alla costruzione delle nuove cubature che, insistendo su aree pubbliche, e in assenza di un regime privatistico del suolo, eliminerà alla fonte qualsiasi operazione speculativa, consentendo una più corretta gestione dell’intervento.
È il Suo contributo per una “città a misura d’uomo” nel Terzo Millennio?
Sì. Il lavoro svolto per Tor Bella Monaca è propedeutico all’individuazione dei parametri necessari a costruire una città a misura d’uomo oggi: il Coefficiente d’affollamento ottenuto dal rapporto Fe/Fu come modello analitico di riferimento per ogni nuovo insediamento urbano, dove il valore di tale rapporto è da ricercare analizzando i vari tessuti urbani con indagini sociologiche e statistiche che individuino quanto questo valore sia rappresentativo del modello ideale di riferimento. Un impegno che richiede almeno il supporto dell’Università e di diverse Facoltà alla ricerca. In assenza di un lavoro di squadra non sarà possibile portare a compimento un progetto così ambizioso.
Cos’è Il “Coefficiente di affollamento”?
L’idea urbanistica nasce dal convincimento che la città a misura d’uomo non possa avere un prefissato dimensionamento, ma che questo sia strettamente correlato alla quantità di presenze garantibili in un determinato spazio. Il Ca sarebbe un parametro fondamentale per dimensionamento e/o formazione di nuovi Piani di Programmazione Urbanistica e per la riqualificazione di quadranti degradati di metropoli. Il maggiore disagio abitativo nelle aree di edilizia economica/popolare è rappresentato dall’espressione quartieri dormitorio. Il Ca si propone di misurare e prevedere il Confort Abitativo come rapporto ottimale da perseguire, nella progettazione, per ottenere un buon livello di percezione del luogo dell’abitare, inteso come “luogo adatto al soggiorno stabile di un individuo in un contesto urbano tale da renderne sicura la propria permanenza”. Proprio tutto quanto l’Uomo fin dalle origini ha ricercato, come modello insediativo, affidandosi sia a barriere e soluzioni architettoniche sia alla mutua assistenza dei propri simili. La città è il punto di massima evoluzione di questo archetipo, dove vivere, lavorare, socializzare, creare una famiglia, sfruttando i benefici legati alla presenza di servizi e la mutua assistenza resa possibile dal contesto urbano. E fino ad una certa dimensione ha raccolto tali istanze riuscendo a garantire ai propri abitanti percezioni di adeguato confort abitativo. Ma quando l’inurbamento esponenziale della popolazione e la crescita demografica hanno fatto aumentare le dimensioni delle città a dismisura, con milioni di abitanti, un sistema forse ottimale per una popolazione compresa tra le 30.000 e le 40.000 unità è stato messo in crisi. Non ha retto alla trasformazione da città a metropoli. E sono nati quartieri super-affollati dove la sovrapposizione di funzioni tende al caos, quartieri ottimali, abitati dai ceti sociali più elevati, con un equilibrio tra la presenza di residenze e servizi offerti, e quartieri dormitorio, dove la presenza di servizi è scarsa o inesistente.
Come funziona il Coefficiente di affollamento?
Il Coefficiente di affollamento (Ca) – riferibile solo a contesti urbani caratterizzati da zonizzazione con vocazione residenziale intensiva o semi-intensiva – cerca quindi di ricostruire il modello ideale, ravvisabile nei brani della città dove la funzione abitare è associata a funzioni produttive, associative e servizi tali da bilanciare i flussi di persone in entrata e in uscita nell’arco delle 24 ore. Per farlo, usa i parametri di Flusso in uscita (Fu) (n. di persone che durante l’arco temporale della giornata lavorativa lasciano per vari motivi il quartiere per recarsi in altri quadranti della città) e di Flusso in entrata (Fe) (n.di persone che entrano per vari motivi nel quartiere provenienti da altri quadranti). Il Ca ottenuto dal rapporto Fe/Fu = 1 verrà attribuito al modello ottimale per l’abitare. Di conseguenza, i valori del coefficiente Ca > 1 rispecchieranno modelli riferibili a luoghi dell’abitare disagiati per un eccesso di funzioni o sovrapposizione delle stesse che interferiscono negativamente sulla qualità dell’abitare stesso, mentre i valori Ca < 1 rispecchieranno un disagio dovuto alla scarsa presenza di funzioni tali da attrarre flussi di persone durante l’arco della giornata lavorativa interessate a recarvisi per motivi di lavoro, studio, presenza di uffici pubblici, svago. Man mano che il rapporto Fe/Fu = 1 varia con valori sia in aumento che in diminuzione si avranno, attraverso tutta una gamma di grigi, opposte situazioni di disagio abitativo. Il dimensionamento di un nuovo quartiere residenziale o la riqualificazione di un quartiere degradato dovrebbe quindi essere sottoposto a verifica utilizzando un modello ottimale valutato anche in considerazione del Coefficiente di affollamento, oltre che delle vigenti normative urbanistiche, per ottenere un brano di città a misura d’uomo. La dimensione ottimale potrebbe essere rappresentata da una superficie territoriale atta alla residenza di una popolazione ricompresa da i 30.000 ai 40.000 abitanti dove, oltre a dotarla di quanto già previsto dalla urbanizzazione primaria e secondaria, venga verificato anche il Ca per ottenere un sostanziale bilanciamento del Flusso in uscita e del Flusso in entrata.
Ma serve un lavoro comune
Sì. Il Coefficiente di affollamento tende a definire un modello ottimale per l’abitare. Ma è un obiettivo raggiungibile soltanto attraverso la creazione di funzioni caratterizzanti il quartiere rappresentino un polo di attrazione per flussi provenienti da ambiti esterni. E la ricerca analitica di tali valori e funzioni necessita del coinvolgimento di più specializzazioni che sinergicamente diano il loro contributo, come quelle delle Facoltà di Architettura, Urbanistica, Scienze Statistiche e Scienze Economiche. Al lavoro, insieme, per un abitare sostenibile.