In un contesto geopolitico già teso e incerto a causa della guerra Russo-Ucraina e del conflitto Israelo-Palestinese, l’ultima minaccia in ordine di tempo alla stabilità europea e all’export italiano proviene dal Canale di Suez, una rotta strategica e fondamentale per il commercio internazionale, considerato che da quel tratto di mare in territorio egiziano transita il 12% dei commerci globali.
L’attacco portato nel corso delle ultime settimane alle navi cargo
che attraversano il Canale di Suez da parte degli Houthi, gruppo di ribelli yemenita sostenuto dall’Iran, sta infatti comportando gravi conseguenze ai trasporti dall’Asia verso l’Europa: nei primi giorni del 2024, lo stretto che collega il Mar Rosso al Mediterraneo ha subito un crollo del 35% del transito di navi. Questo dato è la conseguenza della decisione di diverse compagnie di “cambiare rotta”, puntando la prua verso il capo di Buona Speranza, in Sudafrica. La nuova tratta, decisamente più lunga, comporta significativi ritardi per le spedizioni. Il viaggio di una nave da Singapore a Rotterdam, uno dei principali porti europei, passando per il Sud Africa si allunga di circa il 40%, vale a dire dai 10 ai 20 giorni di navigazione in più. La conseguenza sono costi di trasporto più elevati (il prezzo di un viaggio di andata e ritorno dall’Asia all’Europa si stima possa costare quasi un milione di dollari in più) e l’aumento delle tariffe di spedizione, che in una settimana sono più che triplicate: a metà novembre spedire un container da 40 piedi da Shanghai a Genova costava 1600 dollari, oggi la cifra per la stessa tratta, con lo stesso container, è di 5200 dollari.
La riduzione dei traffici dal Canale di Suez si sta riflettendo anche sui porti italiani. Ad analizzare la situazione è stato l’ISPI, che ha preso in considerazione quelli di Genova, Venezia, Trieste, Gioia Tauro, Augusta e Livorno. Porti dai quali entra nel Paese il 54% delle importazioni marittime italiane ed esce il 40% delle esportazioni. Nel giro di qualche settimana questi porti hanno fatto registrare una riduzione del traffico del 20%, un dato rilevante e piuttosto preoccupante.
Questa complicazione sta generando le prime ripercussioni – per ora ancora contenute – sul commercio internazionale delle imprese italiane, ma se la “crisi” dovesse persistere il quadro potrebbe rapidamente cambiare. Secondo i dati di Confartigianato, il valore dell’import-export italiano che annualmente transita per il Canale di Suez supera i 148 miliardi di euro, di cui circa 93 miliardi di import e 53 miliardi di export, e in percentuale le merci italiane che seguono la rotta che attraversa l’Egitto rappresentano oltre il 15% delle importazioni totali dall’estero, e quasi il 9% delle esportazioni. Attraverso Suez, tra l’altro, transita anche buona parte degli acquisti di beni dalla Cina (che resta il secondo mercato di approvvigionamento del nostro Paese). E anche un terzo delle importazioni italiane nel settore della moda giungono in Italia attraverso il Mar Rosso. L’incidenza è alta anche in relazione alle importazioni di greggio e di prodotti metalmeccanici, che costituiscono circa il 30% del totale degli acquisti dall’estero. Senza dimenticare, in questa fase storica, la nostra dipendenza nell’approvvigionamento del petrolio e naturale liquefatto da “fonti alternative”, dopo l’addio al metano russo.
Se è vero che le instabilità internazionali degli ultimi anni stanno spingendo molte imprese italiane a considerare il nearshoring e il friendshoring, è altrettanto vero che è complicato pensare che queste soluzioni possano compensare l’impatto che il blocco di Suez potrebbe avere in termini di valori assoluti. Inoltre, questa ennesima potenziale crisi sta contribuendo a rafforzare quelle forme di neo-protezionismo (spinte anche dal vento della politica che soffia in questa direzione), che – secondo la Banca Mondiale – nel 2023 hanno provocato un calo del 5% dei commerci internazionali.
Secondo le stime dell’Ispi, i prezzi in Europa potrebbero aumentare – entro 12 mesi – dell’1,8% e l’inflazione core, ovvero quella che esclude le componenti più volatili, come ad esempio generi alimentari e costi dell’energia, potrebbe crescere quasi dell’1% rispetto a uno scenario senza crisi.
Un’altra fase inflativa è quindi un rischio da scongiurare ad ogni costo, anche perché è assai difficile da contrastare, come testimoniato da quella più recente affrontata dalla Banca Centrale Europea con un aumento dei tassi di interesse che ha finito per scaricarsi sulle persone e sulle imprese, rivelandosi una contromisura inutile e deleteria.